IL SEGRETO DI ANTONIO

Quasi ogni giorno,Giuseppe si recava all’altro capo del paese,attraversandolo in tutta la sua estensione; in quanto il paese era adagiato sul crinale della collina ,quasi disteso  a riposare a mò di persona  sdraiata, di cui,quelle case disposte su due file  dritte, che dal piano della Madonna arrivavano fino al piano del gelso ,costituivano le gambe ;mentre  quella rigonfiatura della sagoma del borgo antico, che  terminava sulla piazza ,ne rappresentava il corpo; con tanto di testa ,rialzata sul cuscino, la Chiesa Madre, e con tanto di gomiti, le slabbrature delle case , dal lato Sud e dal lato Nord della chiesa. Giuseppe si recava dal suo amico Antonio, percorrendo una distanza che il tempo avrebbe accorciato notevolmente ma che, allora, gli sembrava lunghissima. Esiste, infatti, tra noi e le cose, una sorta di rapporto matematico di proporzionalità inversa, per cui, più si è piccoli e più tutto si allunga, si allarga, si ingigantisce; mentre, man mano che gli anni passano e l’età avanza, ogni cosa, materiale o immateriale, si ridimensiona e si riduce, assumendo dimensioni via via più piccole, fino a cancellarsi del tutto; lasciando,nei casipiùfortunati, solo qualche sbiadita traccia di sé nel sito della memoria di ciascuno.
Ed ogni più breve tragitto percorso in tenera età, non essendo mai avulso dal suo contesto e, quindi, mai disgiunto da tutte le tracce di vita animale, vegetale e affettiva che brulica intorno, si trasforma  in un’immersione totale, in un’avventura  attraverso un mondo sempre nuovo, ancorché  ben conosciuto, e ricco di scoperte da assaporare attimo per attimo.
Qui una fila lunghissima di formiche che trascinano a fatica, ma molto freneticamente, i loro carichi di semi e di frutti selvatici di ogni specie nei loro granai sotterranei, scavati nella terra con antica arte.Queste sfilano veloci, ben allineate nei due sensi di marcia  e, di tanto in tanto, si scontrano, si fermano, si annusano baciandosi come per salutarsi o per scambiarsi messaggi misteriosi in un codice tutto loro, per riprendere poi immediatamente il cammino, riguadagnando  ciascuna il proprio posto nella fila ; l’una per andare a depositare il suo carico decisamente sproporzionato per il suo esile corpo e l’altra per andare a rifornirsi. Dall’altro lato della strada,una lucertolina, nel suo bel mantello verde, sonnecchia vigile al sole, sul muretto di pietra e scivola in un baleno in una crepa del terreno, al rumore dei passi del bambino; più in là, un fiorellino campestre comincia a schiudersi con circospezione, quasi spiando che aria tiri fuori, accolto festosamente dagli allegri cinguettii dei passeri che si apprestano a costruire i loro  nidi e dalle agili e festose coreografie delle rondini che sfrecciano alte nel cielo.
Gli adulti sono talpe che avanzano al buio nei loro labirinti sempre più profondi ed intricati, scavati nella terra. Il bambino è, invece, un sommelier che osserva, ammira, odora e, a lenti e piccoli sorsi, trangugia il nettare della vita, per poterne assaporare in una sola goccia i profumi, i sapori, i colori. Egli forse già sa che, trangugiare per bicchieri colmi è ubriacarsi di vita, senza riuscire ad afferrare le intime essenze e le odorose fragranze delle cose. Così per Giuseppe, ogni volta che si recava a casa di Antonio, il bottino era sempre ricco ed il percorso, complice la lentezza del tempo, si dilatava  a dismisura. Antonio era l’amico più caro di Giuseppe. Essi frequentavano la prima elementare nella stessa classe con altri 43 bambini. Antonio, nella scuola, era considerato una sorta di genio, perché era in grado di eseguire mentalmente e con la stessa rapidità delle calcolatrici, di cui allora, in paese,non si conosceva neanche l’esistenza, delle operazioni, anche complesse, di moltiplicazione e di divisione. Certo, anche di sottrazione e di addizione, però questo sorprendeva di meno. Per tali sue abilità, i maestri della scuola lo facevano esibire nelle altre classi; qui, questo fenomeno veniva sottoposto a prove di calcolo veloce anche da parte di altri alunni che, rosi dall’invidia, cercavano di farlo cadere in errore, proponendogli operazioni sempre più lunghe e difficili. Naturalmente entro i limiti di quell’epoca  e di quell’età, che costringevano a ragionare per numeri piccoli, giacché una distanza di 10 km  sembrava impercorribile e lo spazio di una giornata, per la quantità di cose che riusciva a contenere, era l’eternità.
- 344 x 166, gli domandava uno ! e Antonio, senza scomporsi, socchiudeva gli occhi per concentrarsi meglio e, in men che non si dica, digitando i giusti tasti della  calcolatrice incorporata nella sua mente, pronunciava il risultato esatto, che l’altro ben conosceva, per averlo preventivamente calcolato la sera prima; impiegando, però, tempi molto più lunghi, nonostante la collaborazione di altre persone della famiglia, per le quali , quello di “ fregare “ Antonio stava diventando  un gioco sempre più appassionante. Immediatamente,mentre l’interrogante era ancora a bocca aperta per la meraviglia non disgiunta a rabbia, un altro scolaro immediatamente lo incalzava e, per aumentargli la difficoltà, gli chiedeva tutto di un fiato:
Quattromilacinquecentosettantasette per  quattrocentocentosettantanove, aggiungendo ulteriori cifre, rispetto alla moltiplicazione precedentemente proposta, ed inserendo, con un po’ di cattiveria, sia nel moltiplicando che nel moltiplicatore, numeri dispari; risparmiandogli solo la virgola perché, non avendo ancora studiato i numeri decimali, egli non sapeva ancora che esistesse. Ma Antonio, estraniandosi completamente dal contesto dell’aula, come in trance, appoggiava una mano sulla fronte e premeva con forza sulle tempie con l’estremità delle dita, come a voler farne schizzar fuori materialmente il risultato; risultato  che, nell’arco di pochissimi secondi, veniva declamato, tra la  malcelata delusione dei compagni e l’incontenibile soddisfazione del loro maestro che, al settimo cielo perché, intimamente convinto di essere, in qualche modo, il creatore di tale fenomeno,  si sentiva il più diretto destinatario di quella grande ammirazione provocata  nella platea dalle strabilianti  prestazioni di Antonio.
Anche quel giorno, dunque, quando già da un po’ si era fatto buio, Giuseppe si recò a casa del suo amico sia per finire i compiti sia perché quella casa, così diversa da tutte le altre del paese, lo affascinava. Infatti, il padre di Antonio, prima bracciante agricolo e poi usciere ai Tribunali, aveva trasformato la sua casa in una vera e propria villa; col cancello di ferro riccamente lavorato e il giardino tutt’intorno; l’edera , arrampicandosi  lungo i muri,   rivestiva tutta la casa di un mantello di colore verde intenso; lo specchio d’acqua   posto al centro del giardino brulicava di pesciolini rossi; la siepe di ligustri e rampicanti e le aiuole con le rose  dai mille colori, erano attraversate di tanto in tanto da qualche coniglio dal  manto soffice e candido come la neve, che sfrecciava veloce e guardingo. A Giuseppe sembrava di stare in uno di quei luoghi incantati di cui erano piene le sue letture e, di conseguenza, le sue fantasie.
Il cancello era aperto e Giuseppe ,che conosceva il luogo a menadito, vi entrò; ma, man mano che si avvicinava alla casa, udiva sempre più distintamente  ora rumori strani ora parole incomprensibili ora urla minacciose ora implorazioni ora pianti .La porta era chiusa ed egli, impaurito, non bussò: Tuttavia, insospettito da ciò che veniva udendo, si soffermò a spiare dalla toppa della porta ,da cui, date le grandi dimensioni delle serrature dell’epoca, si poteva osservare chiaramente tutto l’interno della casa. Quella che si presentò a Giuseppe fu una scena davvero infernale! Il papà di Antonio era completamente fuori dalla grazia di Dio: Egli aveva i tratti del volto talmente tirati, induriti e abbrutiti da non lasciare intravedere alcuna traccia di umano; il viso era rosso paonazzo e le vene delle tempie così gonfie che sembravano lì lì per scoppiare; lo sguardo fisso emetteva bagliori funesti; la camicia, a cui erano saltati tutti i bottoni, completamente aperta sul petto villoso, era interamente lacerata; i pantaloni, con la cinghia penzolone, riuscivano a tenersi su  solo perché bloccati dalle due grosse natiche.Egli urlava come un forsennato, pronunciando frasi sconnesse, di cui si riuscivano a percepire soltanto le minacce, che seminavano il terrore tutto intorno; egli si muoveva nella stanza, barcollando ad ogni  accenno di movimento; e, per mantenersi in posizione più o meno verticale, era costretto ad  appoggiarsi, ora alla parete, ora ad una sedia, ora al tavolo, posto nel bel mezzo della stanza, sul quale, infine, crollò, a pancia in giù, completamente abbandonato, senza più forze e con le braccia penzoloni che arrivavano a toccare il pavimento, da tutti e due i lati del tavolo.
La moglie ed i suoi sette figli assistevano, impietriti dal terrore, a questa scena,rimanendo inchiodati alle loro sedie, disposte in fila lungo la parete e tenendosi per mano, per farsi coraggio l’un l’altro; i più grandicelli tenevano sulle ginocchia i più piccini, i quali, erano i soli a non rendersi conto di ciò che stava accadendo e, interessati da quello strano gioco che si stava svolgendo, non capivano perché la mamma li tenesse stretti a sé, impedendo loro di parteciparvi.
In quella triste condizione, Antonio appariva in una luce totalmente diversa a Giuseppe che era abituato a vederlo ,applaudito ed invidiato da tutti i bambini, nei suoi trionfali giri per le classi.Adesso ne provava compassione e si vergognava per quell’umano sentimento di invidia nutrito a volte nei suoi confronti; invidia che solo la forte amicizia aveva sempre impedito di far affiorare dalle pieghe più recondite del suo animo: Ma come aveva fatto a tenere tutto per sé questo atroce segreto, senza mai tradirsi ? a non far trapelare in alcuna occasione una situazione tanto drammatica vissuta in famiglia ? A pensarci bene, però, c’era qualcosa nel comportamento di Antonio che avrebbe dovuto insospettire Giuseppe
Egli, infatti, soprattutto sul far della sera,interrompendo bruscamente i loro giochi sempre chiassosi e movimentati, nel bel mezzo del più gioioso divertimento ,si rabbuiava impensierito, come se fosse stato colto da improvviso timore; indi si appartava per qualche istante  e poi si metteva a correre all’impazzata in direzione della sua casa.
Mentre la mente era attraversata da simili pensieri, Giuseppe, sempre con gli occhi incollati alla toppa della porta, continuava a scrutare l’interno della casa che appariva ora come un campo di battaglia, immediatamente dopo uno strenuo combattimento; senza riuscire a distaccarsi con lo sguardo da quel gruppo marmoreo di persone  costantemente inchiodate alle proprie sedie, col busto rigido,gli occhi sempre fissi sul tavolo e con i lineamenti di pietra scalpellata; immobili ma fortemente espressivi di energia bloccata, di forza imprigionata, come certe sculture michelangiolesche.
E questa era soltanto una tregua, perché la battaglia doveva riprendere di lì a poco con maggior vigore. Infatti, il riposo del papà, che aveva portato nella casa quella calma apparente, bruscamente , come era iniziato, si interruppe.Egli si alzò di scatto dal tavolo, riprendendo improvvisamente e miracolosamente tutta la forza prima sopita e si scaraventò sulla moglie; l’afferrò con violenza per i capelli, scotendola  forte ed urlandole parole, di cui non si riusciva a cogliere il senso; come in preda a chissà quale forza malefica, si mise a trascinarla sul pavimento. Tutto il suo corpo era scosso da  movimenti convulsi, come se fosse stato morso dalla tarantola. La poverina piangeva disperatamente e lo implorava di non terrorizzare i figli ma più lei lo implorava più lui diventava violento, leggendo, forse, nell’atteggiamento della moglie un moto di protesta o addirittura di ribellione che lui non le aveva mai consentito.Tutti i figli, allora, le vennero accanto, piangenti ed imploranti e si gettarono sul pavimento, abbracciandola forte, quasi per farle scudo con i loro esili corpicini.
A questo punto, come se nella sua mente, intricata più di una selva a primavera inoltrata, si fosse aperto un piccolo varco, sì da consentire ad un qualche pensiero di penetrarvi e di attraversarla, il padre ebbe un momento di distrazione ed allentò la presa. La mamma, approfittando di questo attimo propizio, sgusciò via dalla presa come un’anguilla; ma egli,diventando ancora più furioso, si mise a rincorrerla  tutt’intorno al tavolo e, non riuscendo a riacciuffarla, cercò di sfogare tutta la sua ira, sui figli che, in verità, forse per la lunga esperienza maturata, si mostravano molto abili a scansare i calci ed i pugni che egli sferrava all’impazzata a destra e a manca, come un mulo imbizzarrito; così come erano abili a schivare sedie, coltelli ed altri arnesi che, il demonio in persona, interamente padrone del suo cervello, di volta in volta gli porgeva.
Si andò avanti così per un po’, finché non si udì, lontano ma ben distinto, nella calma serotina della campagna di giugno, un organetto che suonava energicamente una movimentatissima tarantella.Il padre di Antonio, come  placato da improvvisa e provvidenziale  magia, si fermò di scatto, ad ascoltare quella musica e, afferrata la moglie, la spinse, quasi con dolcezza al centro della stanza, costringendola ad accompagnarlo in un ballo violento e comicamente  tragico nella sua improbabilità. Più che dal suono dell’organetto, ormai interamente coperto dal frastuono della casa, l’accompagnamento musicale veniva offerto dallo stesso rumore prodotto sulle mattonelle dai salti animaleschi del danzatore. Questi, infuriato come un toro tormentato dalle mosche,passava da un’estremità all’altra della stanza, battendo i piedi con tale violenza da provocare degli avvallamenti sull’instabile pavimento che pareva volesse cedere sotto tanta furia.Le vibrazioni delle travi si trasmettevano allo scarno mobilio e da questi si ripercuotevano sui piatti, sul vasellame, sulle pentole di rame, sulle stoviglie; ed era tutto un tintinnio di clarini, un battere fragoroso di cimbali, un rombante tuonar di grancassa di un’orchestra anarchica ed infernale, pazza e scatenata come il suo direttore.
La moglie, con le trecce quasi completamente sciolte, discinta e scomposta nelle vesti, pur essendo rimasta con una sola scarpa ai piedi, il che contribuiva ad arricchire la sua danza di figure più nuove e più movimentate, si sforzava di assecondarlo, rassegnata; lei aveva ora un’espressione più serena ed appariva addirittura quasi contenta e cercava perfino di tranquillizzare i suoi figli con il sorriso e con lo sguardo. Anzi, mentre saltava e piroettava tutt’intorno alla stanza, cercando di seguire il marito nei suoi sgraziati passi improvvisati, si mise a contare mentalmente i giri di ballo eseguiti. Lei sapeva già, per esperienza, quanti ne occorressero esattamente, a seconda del grado di ubriachezza, affinché l’alcool evaporasse dal cervello del marito. Infatti, dopo un po’,egli, non ancora appagato ma completamente esausto, interruppe bruscamente il ballo e sorretto dalla moglie guadagnò il letto su cui si adagiò, cadendo immediatamente in un sonno profondo.
L’indomani si sarebbe svegliato senza ricordare nulla della sera precedente.
A questo punto, anche Giuseppe, che era rimasto incollato al buco della serratura tutto quel tempo, prese di corsa la strada di casa; ma l’immagine di quella scena, indelebilmente impressa nella sua mente, avrebbe turbato il suo cuore per lunghissimo tempo ancora. Tuttavia, egli non confessò mai la cosa ad Antonio, anche se continuavano a stare sempre insieme per fare i compiti o per giocare.
Una volta, però, Antonio, verso l’imbrunire, interrompendo di punto in bianco i giochi, cosa che non sorprendeva ormai più Giuseppe, chiese a quest’ultimo di accompagnarlo. Giuseppe,ora sì, alquanto sorpreso , lo seguì ed insieme si avviarono verso la casa  di Antonio; in silenzio. Questi vi entrò e ne uscì subito , imbracciando da provetto suonatore un bell’organetto nuovo di zecca.
Mentre si allontanavano dalla casa, senza aspettare neanche la domanda di Giuseppe che lo osservava tra l’ incuriosito e il sospettoso, Antonio si mise a raccontare.
Da quando il padre era stato assunto al Ministero, non c’era più pace in casa sua. Infatti, egli, quando smontava dal servizio, rientrava a casa con il treno.
,    Ma arrivato alla stazione ferroviaria, non trovava subito la coincidenza con la corriera che doveva portarlo su in paese. Allora, per ammazzare il tempo della lunga attesa, si fermava in una delle tante “ cantine” del luogo dove si giocava sempre a “padrone e sotto”!: In questo gioco, era considerata grande umiliazione, perché segno di debolezza e di sconfitta, essere portati, come si diceva “ a urm”, perché ciò comportava una completa astinenza.Viceversa era motivo di orgoglio e di soddisfazione, perché segno di  potenza e di dominio, non fare assaggiare neanche una goccia di nettare divino ai compagni di giochi e tracannarsi da solo tutto il vino. In questo gioco al massacro, il padre di Antonio aveva acquisito una padronanza ed un’abilità  particolari, per la pratica ormai quotidiana e per la grande passione con cui vi si dedicava; il che lo portava a farla sempre da padrone.Il vino scorreva a fiumi e le serate si concludevano immancabilmente con solenni sbronze che preludevano, nelle case degli interessati, a due scenari scontati ed immutabili ; uno a sfondo lieto con aspetti tragici; l’altro, a sfondo tragico  con risvolti comici; Infatti, o si cominciava con il ballo e si concludeva con mazzate da orbi o si cominciava con le botte e si finiva con il ballo.Naturalmente il padre, continuava ancora Antonio nel suo racconto, quando si ubriacava, perdeva la corriera ed era costretto a salire a piedi in paese.
A questo punto del racconto, i due bambini giunsero sul piazzale della chiesa dell’Immacolata Concezione, da dove è possibile vedere tutto il tracciato della strada che s’inerpica come un serpente lungo il fianco della collina, congiungendo la stazione con il paese. Qui Antonio si fermò  e si mise a scrutare attentamente, come la piccola vedetta lombarda delle loro letture, ogni minimo tratto del percorso.Ad un certo punto,scorse in lontananza una sagoma che incedeva barcollando, a passi lenti ed incerti, che cadeva per terra e si rialzava a fatica, dopo essere rimasta per un po’ seduta o bocconi sull’acciottolato sconnesso e instabile della strada. Antonio, a tale vista, sbiancò in voltò e si mise a correre come un folle giù per la discesa, molto ripida nella sua parte iniziale e, in men che non si dica, si unì a quello che a Giuseppe sembrava un punto nero, che si offuscava sempre più, man mano che avanzava la sera..Ma, dalla sua postazione, Giuseppe udiva distintamente le note incerte e malinconiche di un organetto suonato a fatica ed intravedeva due  ombre, debolmente rischiarate dalla luna, che disegnavano improvvisate e strane figure di danza.
Antonio e suo padre si trovavano sul piccolo pianoro posto in cima al tratto più ripido della salita,che pertanto rimaneva nascosta alla vista;cosicché, queste due sagome, solo vagamente abbozzate,danzavano i loro incerti passi di danza su di un palcoscenico  che sembrava sospeso nel vuoto e che aveva per fondale i rivoli argentati della fiumara,le alte montagne circostanti,disseminate,qua e là, di grappoli di case bianche ed il sole, che emanava ora solo un fioco bagliore; a rischiarare in maniera discreta e rispettosa quello scenario sfumato, che univa il mistero e l’indefinito di Leonardo al clownesco, velato di malinconica poesia del Fellini di 8 e1/2, alla irreale, elegante e delicata leggerezza delle feste danzanti dei parchi settecenteschi,immortalate da Watteau.
E Antonio ballava; suonava e ballava, aiutando il padre a rialzarsi ogni volta che cadeva; ballava ed aspettava paziente.Anche lui aveva imparato, come la mamma, a calcolare quanti giri di tarantella occorressero ogni volta affinché i fumi dell’alcool evaporassero dalla testa di suo padre;  e già pregustava la gioia di regalare  alla mamma ed ai fratellini una serata di pace.