ROSINA

Si era ancora nel mese di Maggio e Rosina, per la prima volta, ma tanti suoi compaesani lo facevano ogni anno, già cominciava a fare i preparativi per il grande viaggio.Fino ad allora, essendo troppo piccola per età, non era ancora stata nelle Puglie, regione confinante con la sua che a lei, abituata  com’era a spostarsi dalla campagna solo per recarsi in paese nei giorni delle feste, sembrava lontana come fosse l’America.Fin da bambina, però, lei si soffermava a lungo, incuriosita ed affascinata, ad osservare dall’uscio di casa quelle affollate comitive, allegre e chiassose, che partivano dalle proprie case sparse nelle campagne e s’incamminavano per i tratturi che portavano alla strada principale, direttamente o per bivi e crocicchi; e, allorché tutti i gruppi, provenienti da diverse direzioni, vi giungevano, la strada finiva per debordare di tutta quella gioventù festosa e colorata;proprio come un grande fiume che, ricevendo sempre più affluenti lungo il suo corso, ad un certo punto rompe gli argini e tracima nei terreni limitrofi. Infatti, via via che la folla cresceva, la strada, larga quanto bastava a far passare un carro tirato da una coppia di buoi,non riusciva a contenerla tutta; anche perché, per far sì che quei rapporti di simpatia, di amicizia o già di complice intesa che si erano appena instaurati tra molte persone, questa fiumara, anziché allungarsi lungo il tracciato,si allargava smisuratamente alla testa e si assottigliava via via verso la coda, disegnando sul terreno , a mo’ di foce a delta, la forma di un grande imbuto.Il carro adibito al trasporto cumulativo, caricato che più non si poteva, di fagotti pieni di biancheria personale e di qualche cibaria da consumare nel corso del lungo viaggio,incedeva a fatica su quel terreno ancora fangoso per le piogge primaverili; con andatura lenta e cadenzata, scandita dal ritmo sordo e malinconico del campanaccio appeso al collo di due buoi, sonnacchiosi e svogliati.Il carro,per la sua lentezza, finiva in coda al corteo, preceduto solo di qualche metro dai muli, anch’essi caricati fini all’impossibile, che, in fila indiana, e legato ognuno alla cavezza di quello che lo precedeva, incedevano in maniera nervosa e scalpitante; non potendo adattare il ritmo del loro passo,perché frenati dalla folla,al tintinnio allegro e squillante della loro civettuola sonagliera.Un giovanotto, in prima fila,allungava e chiudeva con forza il suo organetto, cantando a squarciagola; accompagnato da altri baldi giovani che lo costringevano tutto il tempo a spostarsi di qua di là,in mezzo a quella marea di gente;per potersi avvicinare, a turno, alla giovane su cui ciascuno aveva posato gli occhi;e il mantice dell’organetto che egli apriva e chiudeva a scatti, facendolo allungare a dismisura, soffiava complice con forza; alimentando, accrescendo e trasformando in fiamma ardente quella minuscola scintilla scoccata nei loro cuori, al solo incontro fugace di due occhi, immediatamente richiusi in una strizzatina d’intesa. Qualcuno più intraprendente , subito imitato timidamente da altri, facendosi largo tra la gente,prendeva per mano una ragazza che, fingendo di opporre resistenza al suo agognato aggressore, s’incamminava docilmente verso una pista improvvisata,per un giro di Tarantella, brevissimo ma tanto intenso e proficuo sul piano dell’intesa.
La Tarantella sarebbe ripresa, coinvolgendo questa volta quasi tutti, sul piazzale della stazione di Baragiano, nella lunga attesa del treno che li avrebbe portati prima a Potenza e poi nei pressi di Manfredonia , nel cuore del Tavoliere.
Rosina, da sempre, sapeva di queste spedizioni, di queste carovane festose che, per un mese all’anno,lasciavano il loro paese, per andare a fare i lavori della mietitura nella vasta e assolata pianura pugliese.Sapeva anche che tutti ci andavano, non con quell’aria triste e rassegnata di chi partiva per l’America,ma in maniera gioiosa, come per una festa; anche perché a più di qualcuna era capitato di cambiar fortuna, avendo avuto l’occasione di fare l’incontro giusto;  del resto, anche lei era ormai in età da marito.
L’impatto con le nuove terre, in verità, non fu per lei molto felice. Infatti,Rosina era abituata a vivere nelle sue vallate strette e chiuse come in un abbraccio dalle montagne circostanti;sempre lambite ai piedi da un ruscelletto di acque limpide, il cui sommesso e loquace gorgoglio, le sussurrava tante cose e le teneva compagnia ad ogni istante .Così, essa avvertiva,in ogni momento della sua giornata, un senso di protezione e di rassicurante intimità.
Qui invece, lo sguardo, potendo spaziare libero in quella sterminata pianura,si smarriva, disorientandosi e, con un senso di paura, roteava a 360 gradi alla ricerca disperata di un cespuglio o di un alberello su cui soffermarsi, per riposarsi; come un naufrago che, in alto mare,cerca un’ancora a cui aggrapparsi per non affogare.
Per questo, pur essendo già passata una settimana dal suo arrivo,Rosina non si era acclimatata come gli altri. Anzi , essendo costretta a stare, dalla mattina alla sera, o piegata sulla sua falce per mietere o ricurva per raccogliere i manipoli lasciati tra le stoppie dagli altri mietitori, diventava sempre più triste e scoraggiata.La stanchezza,  che si accumulava giorno dopo giorno, le faceva sentire quella vita sempre più insopportabile; e l’unica sua aspirazione era che giungesse presto la sera, per  gettarsi a corpo morto sul suo giaciglio di pannocchie sotto le stelle e cadere in un sonno profondo ma , per la sua brevità, mai completamente ristoratore.Anche perché,lei si diceva, stando così le cose, difficilmente si sarebbero potute creare quelle occasioni di incontro in cui ciascuno sperava per poter dare una brusca virata al proprio destino. Dunque,quelle strizzatine d’occhio che si erano scambiati, quelle tarantelle della partenza,nelle quali lei pure era stata trascinata, senza opporre una decisa resistenza, quegli stornelli ai quali pure aveva risposto non avrebbero avuto esito alcuno ! E lei sarebbe tornata a casa così come era partita ! Tanto più che il giovane che, durante il viaggio di andata, le aveva usato una qualche  attenzione, era capitato a lavorare in un’azienda agricola molto distante dalla sua.Questi erano i pensieri che passavano continuamente per la testa di Rosina  . Ma un bel giorno, proprio quando lei si era già rassegnata a tornarsene a casa così com’era venuta, accadde un fatto nuovo.
Si era ancora all’alba e tutto il gruppo, da poco levatosi, si apprestava a recarsi nei campi già assolati per riprendere la mietitura interrotta la sera prima.In lontananza, si udì uno scalpiccio di cavalli;  ma ciò che maggiormente li incuriosì fu l’assordante rumore delle ruote di una carrozza sul selciato  sconnesso della masseria. Per cui tutti, distogliendosi dalle loro faccende,si disposero in piedi ai due lati della strada, facendo ala,a mo’ di schierante armata, al passaggio della carrozza.In realtà,si trattava di un semplice calesse,solo un po’ più elegante ma lei, quando raccontava la sua storia, parlava sempre di carrozza ,perché un calesse le sembrava troppo riduttivo ! I sogni,si sa,vanno accompagnati;anche se essi hanno nella spontaneità la loro componente primaria.
Dal finestrino si affacciò un signorotto del posto e:

- Buon giorno lavoratori !
- Buongiorno a signoria,risposero tutti in coro.
- Sentite…..mi serve una di voi per……
- Ah ! Non è cosa per noi uomini?!

E tutti gli uomini, raccolti i pochi attrezzi del mestiere, si avviarono lentamente verso il luogo del lavoro.
Dal gruppetto delle donne,Rosina, quasi presagendo che forse si stava presentando per lei l’occasione di giocare la sua carta vincente, si fece avanti di qualche passo e prese la parola:

- Ma è una cosa buona?
- Certo che è una  cosa buona...si tratta di questo. Ieri sera è venuta a mancare Don Pietro De Lavia, l’uomo più ricco di tutto il Tavoliere...
- Salute a noi! disse a bassa voce una del gruppo, a mo’ di scongiuro.
- Be’...ci dispiace...ma noi che c’entriamo?Continuò Rosina con aria  incuriosita e tono incalzante,perché si stava convincendo sempre di più , pur senza riuscire ancora ad immaginare in che maniera,che quelle speranze nate alla partenza si sarebbero potute realizzare.
- Dunque, continuò il signore della carrozza, dalle nostre parti c’è l’usanza di far piangere il morto    da persone estranee, a pagamento…..C’è qualcuna in mezzo a voi che sa farlo ? Sarà ricompensata con dieci soldi al giorno più vitto e alloggio per tutta la durata del lutto…Ah!
- Dimenticavo,c’è anche  l’abito per la cerimonia funebre che non deve essere restituito..
- IO! si offrì subito Rosina, cercando di battere sul tempo qualche altra compagna che avrebbe potuto accettare un’offerta così vantaggiosa.

In realtà tutte le altre tacquero.
In quel momento Rosina, per  uno di quegli automatismi mentali che non sapeva spiegarsi, collegò immediatamente questa proposta con un’altra che le era stata fatta al suo paese dalla moglie del signorotto locale, morto qualche tempo prima.Donna Virginia, così si chiamava la signora, vedendola passare sotto il suo balcone, le disse:

- Vuoi andare a recitare due o tre “requiem eterna” sulla tomba di Don Rocco ? Ti do un pezzetto di lardo ed un po’ di cotica…?

Naturalmente lei accettò; già assaporando il gusto più ricco di quelle sue cicorie campestri, che era costretta, di solito , a mangiare senza alcun condimento.
E riuscì a stento a trattenere il moto di rabbia che le saliva dall’anima contro quelle persone privilegiate che lasciavano ai poveri solo le incombenze più noiose,come quella di piangere o quella di  pregare per i loro morti. Ma tale pensiero fu immediatamente accantonato,perché ora c’era da valutare una proposta di gran lunga più allettante.In realtà, Rosina non aveva mai fatto una cosa del genere, essendo tutta la sua famiglia più stretta ancora in vita; però, appena ascoltato quanto le veniva chiesto, si ricordò di sua madre  che piangeva i suoi genitori ed una sorella morta prematuramente e di tante altre persone che cantavano il loro dolore  nelle frequentissime e defatiganti visite di condoglianze fatte al suo paese.
Essa realizzò immediatamente che sarebbe stata in grado di impersonare quel ruolo, potendo prendere ispirazione proprio dalle tante situazioni con cui era venuta in contatto nel corso della sua vita.
Il fattore di Don Antonio, che aveva condotto la trattativa, rimanendo comodamente seduto al suo posto di guida, alla risposta affermativa di Rosina, saltò a terra di scatto e, aperto il portellone, la invitò ad entrare. Mentre questa saliva,la rassicurò dicendole che con il suo datore di lavoro avrebbe sistemato egli stesso ogni cosa; relativamente alla paga nonché ai tempi ed ai modi della prestazione.
Appena si accomodò nell’abitacolo,Rosina si rese subito conto di quanto il suo misero e logoro abbigliamento  cozzasse con il velluto damascato delle poltrone, con il tetto decorato e con i ricchi merletti delle tendine dei finestrini; ma questo, se da un lato, le metteva addosso agitazione e apprensione, per il timore di non essere all’altezza della situazione, dall’altro,invece, le procurava grande esaltazione; perché tutto quel lusso faceva ben sperare per lei,lasciandole intravedere delle prospettive insperate per il suo futuro. Così, fantasticando, si giunse, dopo lungo cammino, nel cortile di un  antico palazzo gentilizio, la cui bellezza e monumentalità la lasciarono senza fiato. Qui, Rosina venne presa immediatamente in consegna da alcune donne della  casa che, condottola ai piani superiori, la prepararono alla cerimonia funebre. Le fecero prendere un bel bagno caldo, immergendola in una tinozza d’acqua profumata;la pettinarono, lasciandole i lunghi capelli sciolti sul petto e la rivestirono da capo a piedi con abiti pregiati. Indi l’accompagnarono nella sala del morto, dove, dopo un breve momento di esitazione,Rosina, entrata subito nella parte, iniziò il suo lavoro, emettendo lamenti accorati e melodiosi.
Nella sua triste nenia, che diventava via via sempre più urlata e movimentata, allo scopo di aumentarne l’effetto scenico, Rosina , pescando sempre nel suo vasto repertorio di ricordi, pensò di utilizzare il fazzoletto, di cui inizialmente si era fornita solo per asciugare le lacrime, come elemento coreografico di grandissima efficacia; e lo martoriò per tutta la durata dei funerali; lo mordeva , stringendo forte i denti fino a lacerarlo, a sottolineare il suo stato di incontenibile disperazione, poi lo afferrava con le mani, tenendolo ben stretto alle due estremità, e lo tendeva, scotendolo con violenza, sulle ginocchia come per  una gara di tiro alla fune;
lo arrotolava a mo’ di cordicella; lo tirava, lo apriva e lo richiudeva con uno scatto rabbioso, come se stesse suonando un organetto ; lo passava sulla fronte, poi dietro la nuca; lo innalzava al cielo, sollevando alte le braccia,quasi ad indicare un contatto diretto con l’Altissimo; lo brandiva come un vessillo e lo  faceva ruotare, con una sola mano, con aria di trionfo;lo teneva in alto come a rappresentare  la vittoria sulla morte, disegnando così tutte le figurazioni di una danza funebre; e le gambe, come scosse da fremiti convulsi, si muovevano,or lente or frenetiche, trasportate dal ritmo sempre appassionato della sua stessa melodia, mentre i piedi, con movimento alternato, battendo ripetutamente con violenza sul pavimento,segnavano il tempo.
Il suo pianto risultava talmente accorato da far sciogliere le pietre ed appariva così vero che nessuno riusciva a trattenere le lacrime; tanto che tutti si domandavano se non fosse proprio una vera figlia di don Antonio, tenuta segreta fino ad allora e sbucata adesso all’improvviso chissà da dove.Del resto anche Rosina era talmente presa dalla parte che le sue erano lacrime vere, provocate non da un processo di immedesimazione ma, al contrario, di totale estraniazione al fatto. Infatti, mentre cantava, cercando di modulare bene la voce per adattarla il più possibile a qui ritmi tante volte uditi e che risuonavano ancora nitidamente nella sua testa, Rosina, si prefigurava, per sé e per i suoi cari, scenari così tragici di disgrazie e di morte che il pianto le veniva giù spontaneo.
In verità, il suo lamento diceva, in un dialetto strettissimo, reso ancora più incomprensibile dalla voce impastata dalle lacrime:

- Don Antonio mio, don Antonio mio,
a lavorare tra le stoppie sotto il sole
una lira al giorno, senza vitto;
invece,  a piangere te, don Antonio mio,
dieci lire al giorno e in più vitto e alloggio.
Come te don Antonio mio,
uno al giorno e trenta al mese.

Essa ripeteva più di una volta, a mo’ di ritornello, gli ultimi due versi, in modo più sofferto e appassionato. E questo finiva per dare al proprio pianto, lo stesso andamento di un’opera lirica che al recitativo fa seguire un’aria, musicalmente più orecchiabile e melodiosa; nella quale l’autore esprime aspirazioni, sensazioni ed emozioni; vero e proprio “cantuccio” lirico della sua tragedia personale.
Alla fine della cerimonia funebre, un signorotto locale  che era stato presente dall’inizio alla fine, colpito dalla magistrale bravura di Rosina, la chiamò da parte e le propose di assumerla a tempo indeterminato. Infatti, egli aveva i genitori ultraottantenni, due zie zitelle molto anziane che vivevano con lui ed un fratello molto malato che poteva finire da un momento all’altro.
Naturalmente Rosina accettò e, col tempo, man mano che le sue prestazioni si intensificavano, essa perfezionava sempre più il suo repertorio; al punto che, quando la sua carriera era ormai all’apice e tutti la cercavano, disponeva di pezzi diversi a seconda delle situazioni.
Anche la sua professionalità si affinava sempre di più, perché prima di ogni prestazione, si preoccupava di raccogliere notizie e dati relativi alla persona ed alla famiglia del moribondo, in modo da offrire pianti personalizzati sempre più apprezzati e richiesti; tono più disperato, ritmo più lento e cadenzato, ritornello più accorato e coinvolgente per i giovani;più rassegnato e distaccato per i vecchi.
Allorché Rosina, nei rari momenti liberi da impegni di lavoro, ritornava al suo paese, se qualcuno, colpito dal suo abbigliamento, che lasciava indovinare un’esistenza molto agiata, le chiedeva che lavoro facesse, era solita rispondere, sprizzando felicità da tutti i pori:
- Piango!